“Cattivi genitori”: esistono? Il mio parere di Psicologa-Psicoterapeuta
“Cattivi genitori” è il titolo di un libro (Raffaello Cortina Editore. 2005) scritto da Stefano Cirillo, uno Psicologo-Psicoterapeuta che da decenni si occupa della psicoterapia delle famiglie problematiche ed è docente nella Scuola di Psicoterapia Familiare di Mara Selvini Palazzolo.
Cirillo si è interessato di psicopatologie come i disturbi alimentari, le tossicodipendenze, le psicosi adolescenziali, condizioni in cui gli studi effettuati da psicologi del settore hanno evidenziato ormai da decenni il ruolo patogeno delle relazioni familiari.
Il titolo del libro, Cattivi genitori, è in realtà provocatorio, perché Cirillo è stato un pioniere tra gli psicoterapeuti che hanno evidenziato la necessità di agire sul disagio psichico dei genitori per mirare alla guarigione dei figli. Un intervento psicoterapeutico rivolto solo al minore è in genere fallimentare se non viene accompagnato da quello diretto sui caregivers, e questo è tanto più vero quanto più tenera è l’età del bambino sofferente.
In realtà esistono genitori che non sono “cattivi”, ma che si rapportano coi figli trasferendo loro tutta la sofferenza che hanno vissuto nella propria esperienza infantile.
L’adulto dovrebbe farsi carico del disagio del bambino (manifestato nei primi mesi col pianto, il grido, l’irrequietezza…) e aiutarlo a gestirlo. Ad esempio, se il neonato piange perché ha fame, la mamma lo cullerà e gli parlerà in modo tenero, rassicurante, per poi nutrirlo. Il bambino dunque vive esperienze in cui impara che il disagio viene accolto per poi dissolversi. L’adulto ha dato un senso alla sofferenza priva di nome (il neonato non è all’inizio in grado di capire perché sta male) e nello stesso tempo l’ha contenuta. Questa funzione è stata studiata e approfondito da W.Bion che l’ha definita “funzione Alfa”, essa determina la possibilità di rappresentarsi mentalmente (ovvero nei pensieri) le proprie emozioni.
A volte la madre non riesce a svolgere la funzione Alfa con il figlio, dunque gli elementi di disturbo non vengono contenuti e dotati di senso, essi rimangono “elementi Beta”, ovvero contenuti emotivi disturbanti che non possono essere pensati, elaborati. L’impossibilità di un’elaborazione fa permanere nella psiche dell’individuo sensazioni angoscianti, che sfociano in sintomi e disturbi psichici.
Nei casi più gravi il genitore non riesce a contenere nemmeno le proprie emozioni, né a dare loro un senso, non svolge la funzione Alfa ma al contrario riversa sul bambino le proprie emozioni disturbanti, in una ricerca impossibile di contenimento. È evidente che il neonato infatti non può essere contenitore di emozioni più grandi di lui. La psiche del bambino accoglierà quei contenuti ma non potrà integrarli col resto della personalità, che presenterà gravi dissociazioni
La catena dei disturbi nella funzione genitoriale
I genitori che non riescono ad empatizzare con i figli, a rappresentarsi mentalmente la condizione infantile, ovvero i “cattivi genitori” sono bambini a loro volta maltrattati e trascurati che sono cresciuti senza divenire sufficientemente consapevoli degli effetti negativi che le relazioni genitoriali hanno causato nella loro vita.
Divenuti adulti mettono in atto lo stesso modello di comportamento genitoriale che hanno subito da figli, non avendone di alternativi, rischiando così di perpetuare la catena dei maltrattamenti e abusi ai minori.
Come si spezza questa catena?
Non necessariamente i bambini sofferenti nell’infanzia perpetuano la catena del maltrattamento. Alcuni talvolta scelgono professioni di cura, ovvero “passano dall’altra parte”, cercando di riparare la sofferenza altrui dal momento che l’hanno vissuta in prima persona . Sono psicologi, psichiatri, assistenti sociali, medici, infermieri, ecc….
Cosa determina la possibilità che un bambino maltrattato non divenga un genitore maltrattante ?
Nell’infanzia i bambini possono stabilire significativi legami affettivi con adulti e diversi dai genitori: parenti, amici, insegnanti, educatori; in tal modo acquisiscono risorse interne che contrastano gli effetti negativi del rapporto coi genitori e consentono di introiettare modelli comportamentali sani.
A volte il partner può mettere in atto comportamenti empatici che svolgono un’azione riparativa delle ferite interne, in altre situazioni il disagio sperimentato è così intenso che spinge gli individui a cercare un aiuto qualificato.
Il ruolo dello psicologo psicoterapeuta a questo punto diventa molto rilevante: consente al soggetto di sperimentare una relazione sana, e di iniziare un percorso di riparazione di cui egli è attore primario.
Lo psicologo-psicoterapeuta è colui che ha già effettuato un cammino personale di riparazione, ne è consapevole e ha acquisito una formazione teorica che gli ha consentito di concettualizzare i principi su cui si basa il cambiamento.
Solo riparando le ferite della propria infanzia è possibile evitare di mettere in atto comportamenti che causano sofferenza ai figli.
Ciò non mette al riparo da errori e incertezze nel rapporto con i figli, ma pone in un atteggiamento vigile, critico, che consente di “correggere il tiro” quando le relazioni sono fonte di disagio.